DOPO LA PRIMA/ In scena al Vascello di Roma la madre che si fa mostro

(di Giulia Rossi)

Il rosso e il nero. No, non stiamo parlando del romanzo di Stendhal, ma dei quadri cromatici emersi dalla visione della Medea di Euripide nell’allestimento di Gabriele Lavia in scena al Teatro Vascello di Roma fino all’11 ottobre. 

Rosso. Come il sangue della tragedia, il dolore della donna tradita, ferita, umiliata, lacerata, che si fa mostro capace di uccidere i figli per vendicarsi del marito Giasone e della sua decisione di lasciarla per sposare la giovane figlia di Creonte, re di Corinto. Medea è la passione, è selvaggia, è la “barbara” portata in Grecia dal marito, la maga, quella istruita capace di suscitare l’invidia degli uomini. Medea stratega di morte cede prima alla disperazione, per poi riaversi dalle urla e dal pianto e partorire un folle piano omicida responsabile di cinque morti, il re Creonte e la figlia, uccisi con l’inganno del dono di nozze (una vestina leggera e una corona avvelenata capaci di incendiarsi e unire padre e figlia in un abbraccio di morte) e i suoi tre figli, avuti con Giasone. 

Se il rosso rimanda al lago di sangue, il nero definisce Giasone, reso ridicolo da un cappello che richiama la festa, indossato prima per discutere con Medea del suo esilio e per offrirle aiuto e ancora nel momento della scoperta dei tre cadaveri dei figli. Giasone tratta con una certa superiorità Medea nell’incontro iniziale, le dice che non è colpa sua, che la sua decisione di sposare la giovane figlia del re è fatta per dare dei fratelli reali ai loro figli, per diventare ricco e poter vivere bene. Di fronte alla disperazione di Medea, al terrore per l’esilio e una vita in fuga insieme ai figli la donna riceve in cambio dall’ex marito pochi spiccioli, buttati sul letto, come per pagare una prestazione sessuale. Lei li respinge, respinge lui e rimane sola. E lì viene alla luce, per lei, per noi, il pubblico, il suo piano omicida. 

Federica di Martino e Simone Toni sono straordinari nella resa scenica, intensi nella recitazione in una continua tensione tra l’allestimento distanziato e il distanziamento emotivo e fisico già presente nella tragedia. La pulsione a buttarsi sull’altro, per amarlo per ucciderlo, per pregarlo di cambiare idea e la spinta ad andare via a nascondersi a rifugiarsi sotto quella coperta (rossa anch’essa, non a caso) che si vede sul grande letto unico oggetto presente sul palco insieme a una seggiola sul lato opposto. 

L’essenzialità dell’allestimento rende omaggio all’intensità della recitazione, alle parole di Euripide, alla tragedia madre di tutte le tragedie, la madre che uccide i figli. Madre, donna, essere umano che ci sentiamo, dobbiamo condannare (come potremmo non farlo…) ma che in fondo rimane lì da qualche parte dentro di noi, una presenza che non riusciamo a cacciare e a cui anche solo per un secondo vorremmo tendere la mano.

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